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Tre domande a Filippo Venturi

Tre domande a Filippo Venturi

Con il suo obiettivo sa mettere a fuoco alcuni fenomeni sociali caratteristici del nostro tempo, per restituirne la complessità attraverso le immagini. Il fotografo e documentarista cesenate Filippo Venturi, classe 1980, risiede da cinque anni a Forlì e ha esplorato, con i suoi scatti, tematiche riguardanti l’identità, il progresso tecnologico e le giovani generazioni. I suoi lavori hanno trovato spazio sulle pagine di testate come The Washington Post, Financial Times, Vanity Fair, La Stampa, Marie Claire e Io Donna, solo per citarne alcune. Il progetto realizzato sulla penisola coreana gli è valso il Sony World Photography Awards, il LensCulture Emerging Talent Awards e i premi “Il Reportage” e “Premio Voglino”.

Da quali inizi è arrivato, negli anni, a collaborare con grandi testate?

 

Il mio interesse per la fotografia è stato tardivo. Si è manifestato a 28 anni, quando ho deciso di approfondire questo linguaggio frequentando un corso della fotografa forlivese Silvia Camporesi. A lei devo l’approccio che mi ha portato a non pensare solo al singolo scatto, ma al racconto di un fenomeno attraverso la serie di foto che compongono un progetto. I miei primi reportage hanno riguardato lo sport, poi, nel 2012, ha preso corpo il mio primo progetto “In Oblivion”, dedicato al quartiere newyorchese di Red Hook. Due anni dopo mi sono occupato della “camera della rabbia”, un luogo sorto a Forlì per ospitare gli sfoghi distruttivi delle persone. Ho pensato che la narrazione visiva di questa stanza potesse essere d’interesse per molte riviste. È stato così che sono entrato in contatto con la photo editor di Io Donna Renata Ferri e mi sono inserito in quel mondo.

 

Cosa ha significato raccontare la Corea, specie della del Nord?

 

Mi ero già interessato, fin dal 2014, alla Corea del Sud. Nel progetto “Made in Korea” volevo mostrare la rincorsa del Paese al progresso tecnologico e l’estrema pressione e competitività che investe le giovani generazioni. È stato spontaneo completare il lavoro in Corea del Nord, con il progetto “Korean Dream”, realizzato per Vanity Fair. Ho dovuto affrontare non poche difficoltà per ottenere il visto e sono arrivato là nel maggio 2017, all’apice delle tensioni tra Kim Jong-Un e gli Stati Uniti di Trump. Ho viaggiato scortato da delle guide, non avevo accesso a internet e dovevo osservare norme di comportamento molto rigide. Ho dovuto armonizzare quello che mi era concesso vedere con quello che mi interessava raccontare. Così mi sono concentrato sui giovani e le contraddizioni dei luoghi educativi, percorsi dai segni invadenti della propaganda, con costanti richiami alla guerra e al sogno di riunificazione.

 

Come vede le mostre fotografiche ai Musei S. Domenico?

 

È un percorso abbastanza nuovo, ma le iniziative promosse finora sono apprezzabili. Per forza di cose è stato naturale partire dai classici come Steve McCurry, Sebastião Salgado, Elliott Erwitt e Ferdinando Scianna. Chi è del settore vorrebbe vedere autori contemporanei con un linguaggio più fresco. Ho apprezzato che questo filone abbia già preso avvio con l’esposizione di Mustafa Sabbagh, che ha affiancato gli autori classici.


Laura Bertozzi

giovedì 7 marzo 2019