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27 gennaio Giorno della Memoria

Forlì non dimentica le vittime degli eccidi nazisti

27 gennaio Giorno della Memoria

Dal 2005, il 27 gennaio si celebra il Giorno della Memoria, la ricorrenza internazionale che commemora le vittime dell’Olocausto e che è stata istituita dalle Nazioni Unite in occasione del sessantesimo anniversario della liberazione dei campi di concentramento nazisti. In questo giorno, in particolare, si ricorda la liberazione del campo di concentramento di Auschwitz, avvenuta il 27 gennaio 1945 a opera delle truppe dell’Armata Rossa. Fu proprio grazie alla scoperta di Auschwitz e alle testimonianze dei sopravvissuti che per la prima volta vennero rivelati apertamente al mondo gli orrori del genocidio nazista. 

Ma per ricordare quegli orrori non è necessario andare troppo lontano. Oltre alle espropriazioni e alle deportazioni che coinvolsero alcune famiglie che abitavano nella nostra città, nel settembre del 1944, Forlì fu teatro di uno dei più gravi eccidi compiuti dai nazisti sul territorio italiano, in cui si contarono 17 vittime di origine ebrea. Una tragedia per troppo tempo dimenticata, che vogliamo ricordare in occasione della Giornata della Memoria. 

A Forlì il campo di concentramento aveva sede in corso Diaz, angolo via Luffo Numai. La palazzina requisita nel dicembre 1943 venne utilizzata come luogo di detenzione. Qui ebbe sede uno dei campi di concentramento istituiti dalla Repubblica Sociale Italiana per raggrupparvi antifascisti ed ebrei rastrellati nella provincia di Forlì. Gli internati erano deportati al campo di Fossoli e da lì in Germania. 

Fu operante fino al settembre del 1944 quando, con l'avvicinarsi del fronte e la chiusura del campo di Fossoli, tedeschi e repubblichini decisero di sbarazzarsi degli ultimi prigionieri, tra cui diciassette ebrei, detenuti presso il carcere di via della Rocca. 

Il primo eccidio, nel corso del quale vennero uccisi dieci uomini ebrei, fu compiuto il 5 settembre 1944 in via Seganti, nella zona delle Casermette, nei pressi dell'aeroporto. Le restanti sette donne ebree, mogli e sorelle degli uomini massacrati il 5 settembre, furono a loro volta fucilate il 17 settembre sempre in via Seganti. Tutti i poveri resti, ebrei e non, ammassati in fosse comuni, furono riesumati tra marzo e settembre 1945, in parte riconosciuti e in parte trasportati presso l’ossario del Cimitero Monumentale di Forlì. 

Solo da un paio di decenni la triste vicenda degli eccidi di via Seganti è stata strappata all’oblio e riportata alla luce per essere ricordata oggi in occasione del Giorno della Memoria e non solo. 

In via Seganti, dal 22 aprile 2007, una lapide ricorda così i fatti di quel tragico settembre 1944:
“Un distaccamento di fanatici nazisti li uccise segretamente e li seppellì in buche di bombe d’aereo all’aeroporto di Forlì nel settembre 1944. I loro nomi rimasero ignoti, i loro corpi non identificati. Dopo 63 anni la comunità forlivese e i familiari incidono i loro nomi sulla pietra per tramandare memoria alle future generazioni”.

 

La storia di Lissi Lewin

(tratto da “I giorni che sconvolsero Forlì” di Marco Viroli e Gabriele Zelli, Il Ponte Vecchio, 2014)

 

Fra gli uccisi in via Seganti vi furono il fratello e la madre di Lissi Lewin, una dolce signora ebrea tedesca che venne nel 2000 a Forlì perché, a distanza di 56 anni, aveva scoperto il luogo dove i propri cari erano stati eliminati e poi sepolti.

Lissi Lewin, giovane militante del Bund Deutsch-judischer Jugend, l’Associazione giovanile ebraica berlinese, e il fratello Alfred, nel 1936, dopo un’aggressione di una squadra di nazisti, con la madre Jenny fuggirono dalla Germania e ripararono in Italia. Alfred, appassionato e portato allo studio delle lingue, si preoccupò che anche la sorella Lissi le studiasse e imparasse. Al sopraggiungere delle leggi razziali si prodigò per convincerla a riparare Inghilterra e fu così che Lissi partì nel 1939 e raggiunse Manchester. Nel 1940 Alfred fu fermato e mandato al confino nell’Italia del Sud. Due anni dopo fece richiesta di essere avvicinato alla madre, rimasta al nord, indigente e assai ammalata. Chiese cioè di andare nella direzione sbagliata. Molti degli ebrei rinchiusi nei campi del sud infatti si salveranno.

Riunitosi alla madre in un campo di confino del pesarese, furono entrambi incarcerati nel 1944 a Forlì. Nel settembre di quell'anno furono fucilati da fascisti italiani e SS tedesche, insieme ad altri quindici ebrei ed ebree, a pochi giorni dallo spostamento del fronte.

Le salme, gettate in un cratere di bomba, furono riesumate nel 1946 e sistemate nel Cimitero Monumentale in loculi appartati e anonimi. Solo nel 1994 trovarono degna sepoltura e la città di Forlì ricordò finalmente la strage. 

Lissi, che prima della fine della guerra aveva sposato a Manchester un antifascista tedesco e dato alla luce una figlia, malgrado tutte le ricerche, non era mai riuscita ad avere notizie precise dei suoi famigliari; tornata a vivere nella Germania, quella dell’Est, solo nel 2000 conobbe il luogo e le modalità della scomparsa del fratello e della madre. Nel frattempo, dopo la caduta del Muro, viaggiare per l’Europa era di nuovo possibile e dopo 56 anni Lissi poté finalmente visitare la tomba dei suoi congiunti.

Nel 2002 Lissi Lewin ha dato il consenso per la costituzione a Forlì della Fondazione Alfred Lewin di cui è stata presidente fino al giorno della sua morte, avvenuta a Berlino, il 26 settembre 2009.

In occasione della visita del 2000 a Forlì rilasciò un’intervista alla rivista «Una città» (che ebbe il merito nel 1994 di riportare alla luce la vicenda degli eccidi di via Seganti dopo che qualche anno prima la studiosa forlivese Paola Saiani aveva pubblicato sugli stessi episodi un saggio sul Bollettino dell’Istituto Storico della Resistenza presieduto da Ottorino Bartolini). Nell’intervista Lissi raccontò che nel 1945 le nacque una figlia alla quale diede il nome di Vera: «La piccola aveva appena compiuto quattro settimane quando ebbi le prime notizie, prima dalla Croce Rossa e poi dal Ministero degli Esteri britannico. Nessuna nelle numerose famiglie di emigranti ebrei aveva ancora avuto notizie. Fui la prima. Una prima lettera smentiva che un certo Alfred Lewin fosse stato rinchiuso in un lager in Olanda; una seconda mi diceva della morte in Italia di mia madre e di mio fratello. Non riuscii a sapere altro. Non credo sarei riuscita a sopravvivere a quella notizia se non avessi avuto la mia bambina da stringere fra le mie braccia. La sua esistenza fu così determinante che mi sono sentita sempre in debito verso di lei. Sono passati 56 anni e in tutti questi anni mi ha sempre tormentato l’idea di non sapere come fossero finiti i miei. Pensavo che i loro corpi fossero stati sotterrati chissà dove. Quando altri portavano fiori sulle tombe dei loro cari, dicevo sempre: “Voi almeno potete farlo, io non saprei dove portarli. Per cui il fatto di poter essere qui è come un sollievo”. È una storia che si chiude. Adesso posso pensare più serenamente alla loro morte. Quindi sono estremamente grata a chi ha reso possibile che io fossi qui».


Marco Viroli

domenica 24 gennaio 2016