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LA SEGAVECCHIA

UNA TRADIZIONE TRA STORIA E LEGGENDA, TRA SACRO E PROFANO

LA SEGAVECCHIA

Il segreto del successo della Segavecchia, “Segavecia” in dialetto romagnolo, sta nel mistero e nella magia che le aleggia attorno. Le sue origini si perdono nella notte dei tempi. Anche se alcuni documenti ne attestano l’esistenza già nel XIV secolo, le radici sembrano ancor più lontane e sarebbero da ricercare negli antichi riti celtici della vita-morte-vita e nelle feste del mondo rurale. La “vecchia segata” rappresenterebbe la fine dell’inverno e il ritorno della primavera, carica di frutti e doni per gli uomini. Alcuni antropologi identificano con il termine “vecchia” l’ultimo covone mietuto e ne accostano l’origine al sacrificio di quest’ultimo, collegandolo direttamente al ricordo di atavici riti agrari. Altri studiosi sostengono che la “vecchia” rappresenterebbe il simbolo della Terra che, dopo il gelo dell’inverno, si riapre e si prepara a generare i nuovi frutti. Lo squarcio prodotto nel ventre della “vecchia” preannuncia così il parto della Terra, gravida di frutti e raccolti.

 

Una leggenda più vicina a noi narra che a una giovane sposa, trovatasi incinta in tempo di Quaresima, venne voglia di mangiare un salsicciotto. Tanta era la voglia che “lo trangugi ancora crudo tutto intero”, peccato grave in periodo di astinenza dalla carne, per il quale la donna fu condannata a morte per stregoneria e per questo segata a metà da due boia incappucciati.
Di certo non v’è certezza su quale sia stata la prima edizione di una delle feste più antiche di Romagna. In un raro documento conservato presso le Raccolte Piancastelli si parla di «… segare la Vecchia due volte sessagenaria e arcidecrepita ne la segata di strada maggiore...». È perciò possibile ipotizzare che, essendo il suddetto documento datato 17 marzo 1667, la “vecchia” fosse allora già «due volte sessagenaria» e che quindi l’origine della Segavecchia di Forlimpopoli risalirebbe quantomeno al 1547, ovvero a oltre quattro secoli e mezzo fa!
Anticamente la “vecchia” di Forlimpopoli veniva posta ritta su un carro che la portava al patibolo e solo successivamente fu messa in posizione seduta, con il fuso e la rocca nelle mani. Un tempo, prima di morire, la “vecchia” lasciava un testamento in dialetto, trascritto su un giornaletto locale che usciva per l’occasione e in cui venivano presi in giro i personaggi caratteristici del paese.
Oggi la “vecchia” è rappresentata da un enorme fantoccio alto fino a cinque metri che, sotto i tratti tradizionali di un’anziana donna curva e grinzosa, personifica la Quaresima e le privazioni che caratterizzano questo periodo dell’anno.
Nelle recenti edizioni della festa, il fantoccio della “vecchia” è diventato sempre più tecnologico: muove braccia e occhi e si piega a destra e a sinistra verso la folla. Nelle due domeniche della festa, la Segavecchia sfila per le strade della città, seguita da un corteo di carri allegorici e di maschere che l’accompagnano al patibolo. Ancora oggi, prima di essere “giustiziata”, una voce fuoricampo legge pubblicamente l’atto d’accusa, redatto in prosa aulica e goliardica. Anno dopo anno, la sentenza di morte ricorda il grave peccato commesso dalla “vecchia” in periodo quaresimale. L’enorme fantoccio di cartapesta viene poi tagliato in due dai boia incappucciati che impugnano un’enorme sega, simulando grande fatica. Al termine del rito, la testa e il busto della “vecchia” si rovesciano all’indietro e dal corpo squarciato a metà, fuoriesce una cascata di dolciumi e giocattoli che vengono distribuiti a tutti i bambini presenti.
 


Marco Viroli

venerdì 3 marzo 2017