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Diamantina Ramponi

La “strega di Vecchiazzano” che si salvò dal rogo

Diamantina Ramponi

In Italia e in Europa, tra il XVI e il XVIII secolo, chiunque fosse dedito a pratiche magiche che avevano a che fare con la cura dei malati o con la risoluzione di problemi di varia natura grazie all’ausilio di pozioni o di riti considerati non convenzionali, poteva essere condannato a morte dalla Sacra Inquisizione. Questo fu il tragico destino cui andarono incontro tutti quelli che finirono i loro giorni arsi vivi sul rogo, dopo essere stati condannati per stregoneria da tribunali ecclesiali senza alcun rispetto né pietà per la vita umana. Anche la Romagna non si salvò da questa triste logica e molti libri (cito tra tutti “Streghe di Romagna” di Giuliana Zanelli e “Le streghe in Romagna” di Patrizia Danesi) ripercorrono le storie di persone, soprattutto donne, che finirono i propri giorni torturate e bruciate perché tacciate di pratiche esoteriche o che andavano contro la morale della religione cattolica.

Una di queste fu Diamantina Ramponi, la “strega di Sadurano”, la cui vicenda è stata in tempi recenti riportata alla luce grazie anche al lavoro dello storico Gilberto Giorgetti. Il compianto studioso forlivese, scomparso nel luglio del 2012, fece partire la sua indagine dalla tesi di laurea di Paola Raggi, che ebbe come relatore il professor Carlo Ginzburg dell’Università di Bologna, di cui a seguire riportiamo l’inizio del secondo capitolo:
«Il 21 maggio 1603 si presentano spontaneamente al Vicario dell’Inquisizione di Forlì, frate Luca di Faenza e Don Orazio Pontiroli, parroco della chiesa di San Lorenzo in Noceto (frazione nella vallata del Rabbi, distante circa 8 km dal centro di Forlì), per denunciare che “(…) nella Villa detta Casa Figara (…) hai una certa donna chiamata zia Diamantina; la quale vien famata d’essere donna la quale faccia li malefici et sani ogni sorta d’infermità tanto di huomini quanto di bestij et di conoscere (…) le persone inferme dalli sui vestimenti negli amalati, ovvero dal chiappo di corda delli bestij, e gli dà medicine con semplice vedere delli chiappi et alcuni guarisce et alcuni altri amazza, la qual donna ha un gran concorso, è donna vecchia et (non ha) troppo buon nome».
Casa Figara si trovava a Vecchiazzano, nella prima periferia forlivese, e, dopo essere stata abbattuta, al suo posto oggi sorge un grande capannone.
In molti si sono interessati alla storia della “strega di Vecchiazzano”, tra questi la scrittrice Maria Beatrice Masella che nel suo libro “Il grande noce racconta. Sette storie per sette sere”, illustrato da Silvia Balzetti, (Bacchilega Editore, 2011) scrive:
«Più di trecento anni fa, nelle terre di Romagna, a pochi chilometri di distanza da Forlì, abitava Diamantina Ramponi, una contadina di sessant’anni, che per sopravvivere praticava l’arte di guaritrice su animali ed esseri umani. Usava il «chiappo», cioè la corda con cui si legavano i buoi, per misurare le bestie e dominare le malattie attraverso strani conteggi e misurazioni. Ma a causa di queste pratiche vicine alla magia, nel 1603, la poveretta incappò nelle maglie dell’Inquisizione, fu accusata di stregoneria e sottoposta a un lungo processo, da cui riuscì comunque a salvarsi».
Come riuscì Diamantina a salvarsi dal rogo e a eludere le maglie della Sacra Inquisizione? È lo storico castrocarese Elio Caruso a narrarci un’altra parte della storia della Ramponi:
«All’Archivio di Stato di Forlì sono conservati gli atti riguardanti il processo contro Diamantina Ramponi, che visse a Vecchiazzano di Forlì nel XVII secolo e di mestiere faceva la “guaritrice”. Per le sue pozioni si serviva di erbe e altre sostanze misteriose, che riduceva in pillole, impiastri e altri intrugli. Era l’epoca della caccia alle streghe e Diamantina forse scontentò qualcuno, perché venne accusata di stregoneria e processata. Poiché era vecchia evitò il rogo, ma venne cacciata dalla città, con l’ordine di non tornare mai più. Diamantina andò quindi a vivere sulla collina che guarda Castrocaro (in zona Sadurano, ndr), a quel tempo coperta di faggi e di castagni. Con l’aiuto di qualcuno riuscì a costruirsi una capanna, dove continuò a preparare le sue “diavolerie”. I Castrocaresi si abituarono a quella vecchia solitaria, che in rare occasioni scendeva in paese, e poiché non dava loro alcun fastidio la lasciarono sempre in pace. Credendo però che se la facesse con il Diavolo, che in dialetto locale era chiamato “bèrr”, le attribuirono il nome di “bèrra”, cioè moglie del Diavolo. E il monte dove lei viveva, venne chiamato “e’ mònt d’la bérra”, il monte della birra».


Marco Viroli

lunedì 9 luglio 2018