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La pineta di Ravenna

Scenario del fallito attentato a un cardinale

La pineta di Ravenna

D’estate, per lenire la calura, si va al mare e spesso si prediligono le località che oltre alla spiaggia possono offrire un ulteriore refrigerio grazie alla fresca ombreggiatura offerta da una pineta. Ciò accade in particolare nel litorale ravennate, dove la fascia verde a ridosso della spiaggia è stata in gran parte preservata e salvata dalla cementificazione.
Non tutti però sanno che, nella prima metà del XIX secolo, la pineta di Ravenna fu scenario del fallito attentato a un alto prelato dello Stato della Chiesa che a quei tempi, dopo la breve dominazione napoleonica, era tornato ad amministrare le Romagne.
Nel 1823 la morte di papa Pio VII Chiaromonti, cesenate, uomo d’idee moderate, aveva spianato la strada all’elezione del cardinale reazionario Annibale Della Genga, ben visto dagli austriaci, che era divenuto papa col nome di Leone XII.
 

Nel 1824 il nuovo pontefice inviò a Ravenna il cardinale Agostino Rivarola, un uomo dallo sguardo “intenso” alla Marty Feldman, al quale affidò il compito specifico di annientare il giacobinismo e la Carboneria. Nominato cardinal legato a latere, il Rivarola ordinò di mettere sotto indagine un gran numero di persone sospettate di essere attivisti o simpatizzanti carbonari. L’esito finale fu la celebre sentenza del 31 agosto 1825, con la quale furono condannati a varie pene ben 514 uomini provenienti da ogni strato sociale. Per sette di loro il giudice stabilì che venisse impartita addirittura la pena capitale, in seguito commutata dal pontefice nella reclusione a vita.
Il processo alla Carboneria romagnola sentenziò la condanna, tra gli altri, di 228 forlivesi. La decapitazione dei vertici liberali costituì un duro colpo per l’organizzazione che non riuscì più a rimettersi in azione come prima.
Per vendetta, il 23 luglio 1826, a distanza di alcune settimane dall'amnistia proclamata da Leone XII, la Carboneria organizzò un attentato ai danni del cardinale Rivarola. Nella pineta di Ravenna, che il cardinale era attraversare ogni giorno all’alba, al passaggio dell’odiato porporato due carbonari bloccarono i cavalli e altri quattro aprirono il fuoco sulla sua carrozza, senza però riuscire a colpire il cardinale. Nel corso dello scontro a fuoco perse la vita solo il canonico Muti che viaggiava al seguito del Rivarola.
I quattro attentatori furono arrestati e giudicati colpevoli dell’omicidio del Muti e del tentato omicidio del cardinale. Dopo aver ascoltato in silenzio la sentenza che li condannava alla forca, i quattro risposero insieme all’unisono: “Chi per la patria muore ha già vissuto assai!”.

 

L’esecuzione ebbe luogo nella piazza grande di Ravenna la mattina del 13 maggio 1828. La vicenda è giunta a noi grazie agli appunti di Giovanni Battista Bugatti, detto Mastro Titta (Senigallia, 6 marzo 1779 – Roma, 18 giugno 1869), noto anche in romanesco come "er boja de Roma", celebre esecutore di sentenze capitali dello Stato Pontificio. Nel 1891 fu pubblicata postuma “Mastro Titta, il boia di Roma: memorie di un carnefice scritte da lui stesso”, una falsa autobiografia (un fake come si direbbe oggi) che prendeva spunto dal taccuino di appunti effettivamente tenuto dal boia.

La carriera d’incaricato delle esecuzioni delle condanne a morte di Matro Titta durò ben sessantotto anni: ebbe inizio quando Bugatti aveva appena 17 anni, il 22 marzo 1796, e terminò nel 1864. In totale Mastro Titta collezionò il bel numero di 514 esecuzioni (sul proprio taccuino, egli annotò 516 nomi di giustiziati, tuttavia dal conto devono essere sottratti due condannati, uno perché fucilato e l'altro perché impiccato e squartato dall'aiutante). La sua carriera non conobbe pause per una media di sette condanne annue. Egli operò anche sotto il dominio francese, durante il quale compì cinquantacinque esecuzioni. Le sue prestazioni professionali restano annotate in un elenco che arriva fino al 17 agosto 1864, giorno in cui fu sostituito da Vincenzo Balducci e papa Pio IX gli concesse la pensione, con un vitalizio mensile di trenta scudi.


Marco Viroli

martedì 2 luglio 2019