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Halo

Un cerchio ancora perfettibile

Halo

Quando verso il termine della stagione 2014 la FIA si “ritrovò” a fare i conti con la patata bollente Jules Bianchi, era da tempo conscia del fatto che la scomparsa di un pilota in pista non fosse  più catalogabile alla voce “fatalità”, come per tanti anni nel ruggente passato del movimento automobilistico  sportivo avvenne, a ogni competizione organizzata nel mondo del motor sport.

Il bando “Halo” fu la risposta concreta che scaturì dalla federazione, alla ricerca di quell’ elemento protettivo che potesse dare qualche risposta a quanto capitato anche a Massa in Ungheria già nel 2009 e alla scomparsa di H. Surtees (il figlio di John Surtees) avvenuta sul circuito di  Brands Hatch in una gara di Formula 2 lo stesso anno.

Un campanello d’allarme, per il quale (con ogni probabilità) in assenza di adeguate contromisure avremmo dovuto spendere parole ben diverse per i Gran Premi di questi ultimi. Basti pensare a quanto successo quest’anno a Monza a settembre all’inizio del ventiseiesimo giro tra Hamilton e Verstappen. O a come al via del Gran Premio del Belgio del 2018, La McLaren di Fernando Alonso abbia letteralmente sorvolato la Sauber di Leclerc, fisicamente sverniciando l’anello protettivo montato sulla vettura del pilota monegasco. Dulcis in fondo l’immensa palla di fuoco regalataci da Romain Grosjean l’anno scorso nel Gran Premio di Sakhir. Secondi eterni, per un immagine in grado di catapultare lo spettatore in epoche distanti e lontane. Ciò che l’Halo costruito dalla Mercedes quella sera scongiurò, nel deserto del Golfo Persico. Tranne le fiamme scaturite da un serbatoio pieno di benzina incendiatosi per un’improvvisa scintilla elettrica. Salvo Grosjean. Per quella scarpa bruciata dentro l’abitacolo della sua Haas, mentre le sue gambe lo accompagnavano autonomamente verso l’auto medica e la salvezza. L’anello dei piloti aveva fatto il suo dovere evidenziando come alcuni particolari del serbatoio andassero invece riprogettati, per evitare in futuro altre simili esplosioni incendiarie.

“Motorsport is dangerous”. Dicono gli anglosassoni. Come si può leggere sui biglietti di una qualsiasi manifestazione motoristica organizzata nella perfida Albione. Un’assunzione di responsabilità personale inequivocabilmente necessaria, a tutelare direttamente un mondo tanto affascinate quanto fragile.

Tanta è stata la strada percorsa dai tempi di Sir Jackie Stewart e quel suo drammatico incidente nella Spa del ’66 e un circuito di oltre 15 km, ben diverso da quello attuale, che portò il pilota scozzese a portare sempre in macchina con sé una chiave inglese per ogni evenienza, fino a battersi (anche contro parte dei propri colleghi) per l’obbligatorietà delle cinture di sicurezza nell’abitacolo di una monoposto. Da allora, questa parola ha conosciuto una continua e instancabile evoluzione. Norme aggiornate,materiali, processi costruttivi e un gergo lessicale via via ampliatosi per arrivare ai giorni nostri, ai collari Hans alle Virtual Safety Car e quant’altro sia opera necessaria a tutela della categoria dei cavalieri del rischio del nuovo millennio.

Un’ evoluzione paritetica e costante ai tragici eventi avvenuti in pista. I lutti improvvisi  di Senna e Ratzenberger nel weekend imolese del ’94 erano anche figli di un’esasperazione tecnica che portavano il casco e le spalle del pilota a essere completamente esposti agli urti laterali. Cosa ripetutasi anche due settimane più tardi a Monaco con Wendlinger, finito in coma dopo l’impatto della sua Sauber contro le barriere di protezione all’esterno della nuova chicane del porto in uscita dal tunnel.  Un mese sull’orlo del baratro mediatico e la FIA impone alle squadre di realizzare per le stagioni a venire abitacoli che prevedano adeguate protezioni laterali, a salvaguardia dell’incolumità del pilota di turno. Viene da chiedersi se nel 2007 senza collare Hans, (per cui il Dr. Watkins in seno alla FIA tanto si batté) Kubica sarebbe uscito illeso dall’impatto di Montreal o se Alonso nel 2003 a Interlagos avrebbe potuto dirsi felice di ritrovarsi solo con una caviglia slogata dopo il colpo di frusta subito nell’impatto contro il muro del circuito brasiliano.

Parallelamente Negli Stati Uniti è stato introdotto dalla scorsa stagione l’Aeroscreen prodotto dalla Red Bull, il corrispettivo dell’Halo sulle monoposto americane della Indy Car Series , dopo quanto accorso a Justin Wilson sul circuito di Pocono nel 2015.

Di più.

A seguito di quanto accadde a Dan Weldhon sull’ovale di Las Vegas nel 2011, dal 2012 in poi fu previsto  al posteriore sul nuovo modello DW 12 prodotto da Dallara, un kit aerodinamico che impedisse alla vettura in scia di poter fortuitamente decollare, in caso di contatto tra l’asse anteriore e posteriore delle due monoposto ingaggiate.

Qualcosa che in Formula 1 ancora oggi non è stato possibile vedere nonostante qualche decollo imprevisto avvenuto, come a Webber e la sua Red Bull nel 2010 a Valencia, fortunatamente in modo del tutto incruento. Principi. Come per ogni soluzione intrapresa in nome della sicurezza, avendo sempre in mente inderogabilmente una sola cosa.

Indietro non si torna.

Sulla via di un “cerchio”.  

Ancora perfettibile.

Foto Fabio Casadei


Emiliano Tozzi

lunedì 25 ottobre 2021